In piedi nello stesso posto dove stavo fumando ieri sera, ascolto i suoni del mattino, un passerotto canta, delle minuscole api ronzano intorno ad un alveare grosso come mezzo limone attaccato alla staccionata del giardino e il sole ancora deve spuntare fuori completamente all’orizzonte. Paolo caccia fuori la testa dalla portafinestra “mattiniero, eh?” “No, non proprio” rispondo.
Più che altro nella mia testa questa mattina ci sono pensieri che speravo di aver dimenticato a casa, ero certo di non averli messi nello zaino, eppure me li ritrovo qui, tra il caffè e lo spazzolino, prima di iniziare la mia giornata. Ogni tanto capita che vogliamo toglierci qualcuno dalla mente e dal cuore, ma è proprio in quei momenti che il pensiero di quel qualcuno rientra dalla serratura ed è inutile combatterci, spesso bisogna solo lasciare che scorra in noi e se ne andrà come è venuto. So che può sembrare assurdo, ma se ci si focalizza sul non pensare una cosa, inevitabilmente la si sta già pensando. La mia semplice soluzione è di camminarci su un po’. Dopotutto sono qui anche per questo in fondo, dopo tutto dieci anni con una persona non li dimentichi tanto facilmente. “Arrivo subito” scorcio. Entrando mi siedo a far colazione, intanto controlliamo tutte le carte che ci siamo stampati, tre fogli di carta ciascuno ci sembrano una sicurezza, una garanzia per trovare un posto da dormire. Peccato che nessuno li sappia leggere tranne noi e che la nostra pronuncia in giapponese è così pessima che nessuno ci capisce. Finita la colazione carichiamo la macchina di Makoto con i nostri zaini e ci avviamo verso il centro del piccolo paese, al primo tempio. Mentre guida Makoto ci spiega che in passato nella zona erano detenuti dei soldati tedeschi, nei dintorni del tempio si possono trovare il campo di prigionia (ancora ben conservato) e una villa, con annessa chiesetta che sembrano essere state estirpate in Europa e trapiantate qui in Giappone. Una volta giunti al tempio, Makoto ci porta allo shrine (tempio shinto) posto in cima ad una salita, proprio dietro alla struttura principale e ci spiega il rito della purificazione e della presentazione al tempio. Ogni volta che si entra in un tempio Buddhista, qui in Giappone, c’è un rituale da eseguire passo per passo. Come prima cosa ci si inchina all’ingresso del complesso, poi ci si avvicina ad una fontana e con dei piccoli mestoli di bamboo si procede con la purificazione, poi si suona l’enorme campana posta solitamente sopra la porta dell’ingresso. Raccogliendo poca acqua con il mestolo, prima ci si lava la mano sinistra, poi la destra e infine la bocca, lasciando cadere l’acqua rimanente in una vasca posta sotto la fontana. Tutto questo serve a pulire le mani dai gesti e la bocca dalle parole. Dopodiché ci si avvicina alle scale del tempio principale, si accede un bastoncino di incenso e si pronuncia il sutra a bassa voce. Fatto questo si compila un foglietto con nome, provenienza e intenzioni, si lascia una piccola offerta e ci si dirige verso l’uscita. Ci si volta verso il tempio, si fa un inchino e si esce. Questo rituale viene ripetuto in ogni tempio, indipendentemente dall’importanza. Esatto perché il tempio in cui ci ha appena portato Makoto non fa parte degli 88 templi famosi che compongono il pellegrinaggio, intorno a questi 88 templi ci sono innumerevoli shrine, dedicati alle più disparate funzioni. Quello che stavamo visitando ora ad esempio è legato alla natura, vi si celebrano delle funzioni propiziatorie per quanto riguarda le semine e per ringraziare dopo i raccolti. Scendiamo al tempio nr 1, chiamato Ryozenji e scattiamo una foto tutti e tre insieme davanti alla porta. Tra saluti calorosi in italiano, in inglese e in giapponese Makoto riparte e noi entriamo. Ci avviciniamo al negozio all’interno del tempio per prendere tutto ciò che esteriormente, ci caratterizzerà come henro-san (pellegrini) su questo cammino. Infatti la tradizione vuole che i pellegrini qui indossino vesti particolari, ancora simili a quelle che si indossavano in passato. La prima cosa che mi metto sotto braccio è la tipica veste bianca (hakui con le maniche, Oizuru senza) con chiusura a kimono che sulla schiena riporta il carattere sanscrito Yu, che sta per Kukai o Miroku Bosatsu e sotto la scritta “Kukai cammina con me” che sta a simbolizzare la purezza dello spirito con la quale ci si mette in cammino, seguendo le orme del monaco. In passato veniva usata anche come sudario in caso di morte del pellegrino e, oggi come allora, rappresenta l’essere preparati a morire in ogni momento. Paolino, che invece si era procurato una splendida camicia di lino di un bianco candido naturale in Cambogia, si rigirava tra le mani il tipico cappello di paglia dalla classica forma conica sul quale vi è sempre riportato il simbolo di Kukai e 4 frasi dell’illuminazione che Kukai stesso predicava “L’essere è perso a causa dei tre larghi mondi del desiderio; Con l’illuminazione diecimila cieli appariranno; Originariamente non esistevano est e ovest; Perché c’è un nord e sud?”. Uno diventa anche mio, ovviamente. Rinforzato e con una specie di cuffia che lo ricopre e lo rende splendidamente impermeabile e utile anche sotto la pioggia. Stiamo per andare a pagare quando mi viene in mente la credenziale, sapete quella specie di taccuino che sui pellegrinaggi cristiani viene riempito di timbri in ogni posto dove si dorme? Ecco qui è un libretto con le pagine che si aprono a fisarmonica, rigorosamente letto da destra verso sinistra, chiamato nokyo-cho sul quale ad ogni tempio si fanno apporre due timbri e una scritta fatta a mano da un monaco dal costo di 300 Yen (sì avete capito bene 300 Yen ogni tempio, ma è una cosa meravigliosa e va fatta). Decidiamo insieme di comprare anche una guida in inglese, piccola tascabile, con le mappe e strapiena di informazioni. Finalmente alla cassa, il conto non è certamente economico, si aggira sui 5000 Yen (poco più 45 €), ma pensate che ci sarebbe ancora da prendere un bastone (kongozue), sul quale vi è riportato l’ “ Hannya Shin-Gyo” l’hearth sutra, ben più di una volta sul cammino è anche stato utilizzato come prima pietra tombale; una campanella (jirei) da portarsi dietro legata e da suonare ogni volta che si pronuncia un sutra in un tempio; una borsetta bianca (zudabukuro) nel quale mettere incensi, Osamefuda, piccoli foglietti sul quale scrivere il proprio nome e il proprio motivo di preghiera e tutte le altre cose di utilizzo comune del pellegrino. Non è una questione economica, ma non me la sentivo di prendere cose del quale ancora non comprendo l’utilizzo, nel senso, ho con me i miei bastoni da trekking e credo possano bastare e non mi piace l’idea di andare in giro con un campanello attaccato che suona ad ogni mio passo. Anche Paolino ha fatto i suoi acquisti, sta guardando fiero la sua bella borsetta con le cose e mi porge una stola come regalo per iniziare il viaggio. Sorrido, conosco il prezzo e mi sembra una cosa esagerata. Sono in imbarazzo, dopo tutto non siamo amici così stretti e non voglio che lui spenda soldi per me, ma d’altra parte non posso nemmeno rinunciare, così la metto in tasca e lo ringrazio con un abbraccio. Usciamo dal negozio e ci aggiriamo nella sala principale del tempio dove delle panche sono disposte ordinatamente di fronte alla statua di un Buddha dorato.
Dal soffitto penzolano piccole lanterne di forma esagonale, sulle pareti dipinti raffiguranti monaci e panorami persi nella memoria. Ci sediamo, un’anziana monaca sta guidando un gruppo di persone in un sutra collettivo. Ascoltiamo con attenzione la preghiera, la cantilena solenne e profonda ruba la nostra attenzione, le campane tibetane le danno energia e ritmo. Restiamo seduti in silenzio anche dopo la cerimonia. Quegli attimi sembrano durare tantissimo, respiro profondamente, voglio scaricare tutta la tensione accumulata in viaggio. Quando riapro gli occhi l’anziana monaca sta facendo cenno a me e Paolino di andare verso il negozio. Ci guardiamo un po’ perplessi, ma infine ci avviciniamo. Con un grosso sorriso lei ci dice “Italy, Makoto” evidentemente qualcuno gli aveva parlato di noi, ci prende un braccio per uno e ci infila due rosari da polso fatti di semi di non so quale pianta, poi senza darci tempo di fiatare ci consegna una borsa bianca ciascuno e due bastoni. Esterrefatti noi ci guardiamo, mentre lei sparisce dietro una parte di carta, richiudendola dietro di se. Aspettiamo qualche minuto, ma, non vedendola tornare, proviamo a chiedere di lei. Quando esce abbozziamo un inchino e un “arigato” pronunciato malissimo, lei allarga il sorriso fino a quasi mostrare tutti i denti e a chiudere quegli occhi già sottili, chissà quanti ne ha visti di henro incapaci come lo siamo noi. Lasciamo il tempio e decidiamo di trovarci qualcosa da mangiare visto che è quasi mezzogiorno. Entriamo in un “udon self service” e con pochi euro ci mangiamo un’enorme scodella di udòn in brodo con tempura di gamberi. Ah il cibo Giapponese, che delicatezza e che semplicità. Mentre pranziamo decidiamo che per oggi non cammineremo, o almeno non partiremo ufficialmente oggi a camminare, nel pomeriggio vogliamo visitare i templi numero 2 numero 3 che sono qui nei dintorni, ma per dormire vogliamo tornare qui al primo, in quanto ci sono molte più guest house e posti per dormire a buon prezzo. Al primo tempio abbiamo recuperato un foglio e delle indicazioni di come arrivare ad alcune di loro, ci sentiamo tranquilli. Dopo un’oretta ci aggiriamo nelle vie di fronte al Ryozenji per capire se è possibile lasciare lo zaino prima di andare agli altri templi, ma tutte le guest house sembrano essere chiuse, solo in una, un signore, che sembrava appena sveglio, ci ha detto “four, four”. Noi abbiamo capito che aprisse per le 16.00. Così in tranquillità, abbiamo lasciato gli zaini nel giardino di questa guest house, riparati dalla vista e dalla pioggia e ci siamo incamminati per i tempio nr 2 della lista il Gokurakuji. Al nostro arrivo ci comportiamo esattamente come Makoto ci ha insegnato, l’inchino, la purificazione, l’inchino di fronte al tempio principale e poi al tempio dedicato a Kukai, proviamo addirittura a pronunciare il sutra come è scritto sulla guida, ma non c’è nessuno e quindi non riuscendo a sentirlo, arrabattiamo qualcosa di veramente cacofonico. Ci avviciniamo all’uscita, inchino e poi primo timbro. Anche qui una monaca con destrezza dipinge degli ideogrammi in verticale e poi ci mette tre timbri. Tre? Mi guardo intorno e capisco, quest’anno, il 2015, è l’anno in cui cade la ricorrenza dai 1200 anni dalla morte di Kukai, controllo sulla guida 835, no, non è così. Guardo la monaca, mi fa cenno a dei volantini su una specie di davanzale, ne prendo uno e mi dice “Koya-san”. Dove avevo già sentito quel nome. San significa montagna. Ecco, il monte Koya, il posto dove è seppellito Kukai. Però purtroppo non ho capito nulla di più, c’è una ricorrenza e centra il monte Koya (da ora per comodità diventerà Koya San). Dico tutto a Paolino, che era rimasto fuori e chiedo lui “non fai i timbri?” “Costano troppo tutti e 88 e non me la sento” mi risponde col suo accento veneto. In effetti 300 Yen sono poco più di 2 euro moltiplicati per 88 posti…eh viene una bella cifra. “Però sono il ricordo migliore che ti potrai portare a casa” controbatto. Appena inizia la risposta mi volto senza ascoltare ed entro al negozio del tempio, afferro un libro come il mio e lo pago. Quando Paolino finisce di parlare, esco e si trova in mano il libro timbrato. “Ma perché?” incalza, “non ti preoccupare” gli dico mentre ci avviamo verso il tempio numero 3 “siamo a posto così”. Camminiamo per mezz’ora su strade di paese, fino adesso nessun sentiero. Il paese che attraversiamo e fatto di case piccole e strade relativamente strette, soprattutto per lo standard europeo, solo una strada, che da noi potremmo considerare una provinciale, si sente non troppo lontana oltre le case, dalla mappa vediamo che tocca un lato del paese ma non lo attraversa. Stranamente non ci sono negozi di nessun tipo. In lontananza vediamo un pellegrino che cammina verso di noi, lo aspettiamo impazienti di parlare con lui. Quando si avvicina, ci saluta e si presenta “Piacere Michele”. Con grossa sorpresa viene dall’Italia e dal veneto pure lui! C’è uno scambio di battute in dialetto tra Lui e Paolino. Sta finendo il cammino, lo ha completato al contrario, dice che porta più fortuna. Grosse risate, nessun pellegrino incontrato fino a qui, il primo che troviamo è italiano. Lasciamo Michele ed entriamo al tempio Konsenji. Svolgiamo il tipico rituale e noto che c’è un silenzio incredibile, statue di diverso tipo riempiono il giardino del tempio, alcune di loro alte 20/30 cm sono coperte da un bavaglino rosso e da un cappellino di lana sempre rosso e formano lunghe e alte schiere ordinate vicino ad una grossa statua di un uomo slanciato, senza capelli, con la tikka sulla fronte, una tunica lunga che lo ricopre per metà e un bastone in una mano che poi sulla guida scopro essere Jizo Bosatsu. E’ un essere illuminato che proteggeva tutte le persone prima della nascita di Miroko Bosatsu, ora si crede che sia protettore dei bambini, delle donne incinta e dei viaggiatori. Spesso appare nelle leggende del passato come diversi esseri, donando fortuna alle persone oneste e gentili. Senza sapere ancora chi fosse o cosa significasse ho lasciato ai piedi di quella statua una monetina da 1 Yen come fanno tutti qui per simboleggiare un’offerta materiale. Ora che lo so, credo che lascerò spesso una monetina ai piedi di questo protettore dei viaggiatori. Facciamo una piccola spesa per mangiare stasera sulla strada del ritorno, senza doverci preoccupare così di cercare ristoranti o cose del genere e puntando già al risparmio. Siamo quasi alla guest house e inizia a piovere, meno male che gli zaini sono al sicuro. Entriamo nel giardino e recuperiamo gli zaini, ma notiamo che è tutto ancora chiuso. Non sappiamo cosa fare. “C’è una tenda là dove abbiamo abbandonato gli zaini” dico a Paolo, mi guarda “la prendiamo?”. “Non saprei, e se è di qualcuno?” chiedo un po’ sconfitto. Ci fissiamo per un minuto, non ci conosciamo su questi aspetti, io la prenderei, mi sembra abbandonata lì come dire se qualcuno ne ha necessità, prendetela e noi, ora come ora, ne abbiamo necessità almeno per questa notte, ma non so se lui farebbe lo stesso. La lasciamo lì e forse poi ce ne pentiremo. Ma adesso che si fa? Torniamo verso il tempio nr 1. Ci sistemiamo sotto al portico perché la pioggia si fa sempre più insistente e incontriamo Michael, un ragazzo americano di 21 anni. Anche lui al “primo giorno”, anche lui appena arrivato, anche lui in cerca di una sistemazione. Gli spieghiamo la situazione delle guest house e rimane un po’ perplesso. Prova ad entrare a chiedere al negozio del tempio e riceve le nostre stesse identiche indicazioni. Siamo sconfortati tutti e tre, io più per la pioggia che per la sistemazione per la notte. Nel frattempo spulciamo la guida nella speranza di captare qualche informazione che magari ci è sfuggita durante il pomeriggio e vediamo segnata sulla mappa una casetta in rosso, in quello che sembra un parco pubblico non troppo distante dal tempio. Decidiamo di andarci tutti e tre e di lasciare qui gli zaini, almeno sono all’asciutto. Risaliamo la strada che porta dietro al tempio, poi a sinistra in una via chiusa tra le case, subito dopo un ponte della ferrovia troviamo questo piccolo parchetto con una casetta di legno con un tavolo e delle panche fisse. Non è chiusa ai lati, ma per la notte potrebbe andare. Facciamo un rapido conto dei materiali che abbiamo a disposizione in tre mentre torniamo verso gli zaini, Michael dice di avere un’amaca da appendere e un fornello, io e Paolino ci divideremo le panche e se piove posizioneremo le mantelle con delle corde che ho nello zaino. Il piano sembra funzionare nelle nostre teste. Recuperiamo gli zaini e mentre torniamo alla casetta quasi smette di piovere. Mi sento felice, mentre scrivo abbiamo preparato un cena dignitosa con i noodles liofilizzati con l’acqua scaldata con il fornello di Micheal, qualche noccioline e del cioccolato che mi ero portato da casa. Sento un lieve vento che soffia, guardo lontano all’orizzonte, il sole sta calando sulla destra e disegna geometrie insensate riflettendo la propria luce sulle nuvole e penso all’avventura che ci aspetta, guardo Paolino impegnato con il fornello e penso che mi sono scelto un gran compagno di viaggio, anche lui pronto a qualsiasi evenienza, che si adatta a tutto senza mai criticare per forza, guardo Michael e penso che alla sua età era tanto se andavo ad un rave in centro Italia. Lui ha una mente così aperta che è venuto qui con l’intenzione di fare questo cammino poi andare in Thailandia a lavorare e infine tornare in Giappone ad insegnare inglese per un anno almeno.